Per il suo 30esimo compleanno, Atefeh Nabavi, studentessa e attivista per i diritti umani ha scritto una lettera dal carcere di Evin. Lei e suo cugino Zia Nabavi sono stati arrestati il 15 giugno 2009. Atefeh Nabavi si trova attualmente nel reparto 209 del carcere di Evin.
La Corte rivoluzionaria di Teheran ha condannato ATefeh Nabavi a quattro anni di carcere, con l’accusa di: “contatti con il Partito Popolare dei Mujahedin Iraniani”; di “aver partecipato ad una manifestazione illegale il 15 giugno 2009” e di “ essersi opposta al regime, manifestando contro di esso”
… così ho compiuto i miei 30 anni!
Sono passati due anni e tre mesi. Nei momenti bui, rinchiusa in isolamento nel reparto 209 del carcere di Evin pensavo al tempo che avrei dovuto trascorrere in questo luogo. La mia mente non riusciva a comprendere la parola “anni” e mentre il tempo passava i giorni e i mesi erano gli unici strumenti plausibili che avevo per misurare la mia permanenza in carcere.
Passarono venti giorni, non ti tratterranno più di cinquanta giorni mi dicevo, poi passò un mese (la detenzione temporanea è di due mesi), poi tre, quattro, sette e intanto dici a te stessa, “Non ti preoccupare, il trascorrere del tempo va tutto a tuo vantaggio, perché il suo passare determina anche la fine della pena.”
Ma quando si compiono trent’anni in carcere, invece di contare le ore, i giorni e i mesi, si contano gli anni, ti senti come se non avessi ricevuto niente dal tempo che passa e ti rendi conto che questi forse sono gli anni più belli della tua vita, e mentre essi passano tu li guardi scorrere quasi come se non ti appartenessero.
A trent’anni bisognerebbe vivere con passione, entusiasmo, estasi giovanile, e non passare il tuo tempo in questa palude come se fossi un nuotatore che non riesce a raggiungere la superficie perché sta soffocando. E sprofondata in questi pensieri, l’amarezza mi riempie l’anima.
Sono passati cento giorni nel reparto 209 del carcere di Evin, è passato un anno rinchiusa con criminali, drogati, assassini, ragazze e donne malate, che sono senza dubbio, in gran parte, il prodotto della nostra società perversa. E ora è da più di undici mesi che vivo in un ambiente isolato in cui non c’è nessuna comunicazione con il mondo esterno.
Qui viviamo scollegati da qualsiasi contatto esterno, da altri esseri umani, dalla natura e dalla vita. Ogni cella ha solo venti minuti a settimana per le visite dei famigliari, e anche in quest’ occasione le guardie ci minacciano facendoci pressione.
Sono passati più di due anni dalle elezioni presidenziali del 2009 e il risultato non è stato altro che centinaia di anni di pene detentive per i figli di questa terra. E ora io, una delle prime donne arrestate e imprigionate dopo le manifestazioni post-elettorali, a cavallo del mio trentesimo compleanno, sto pagando per essere andata ad una manifestazione non tollerata da chi detiene il potere.
Questo e il mio terzo anno di detenzione, il terzo anno senza essere mai stata congedata una volta, senza avere mai visto un famigliare o aver potuto contattarli telefonicamente.
Il 15 giugno del 2009 proprio come tre o quattro milioni di persone che sono scesi in piazza per protestare, sentivo che stava avvenendo qualcosa di molto importante nel mio paese. Quel giorno ho sentito l’obbligo di partecipare e il bisogno di credere alle promesse fatte solo una settimana prima durante i dibattiti presidenziali. Ho pensato che dopo aver partecipato alla protesta sarei ritornata a casa e avrei continuato il mio lavoro di attivista sociale.
Ma le cose andarono diversamente, le promesse non furono mantenute e io come mio marito non ritornammo più a casa, lui fu catturato perché aveva seguito il mio esempio.
Ora sto sperimentando i capitoli non scritti della storia. Ho sperimentato interrogatori, intimidazioni, isolamento, l’esecuzione e l’esilio dei miei più cari amici (alcuni di loro sono amici con i quali sedevo magari la sera prima in uno stesso tavolo a mangiare, o il vicino di letto) e il desiderio struggente che ti prende quando vorresti sentire la voce dei tuoi cari, anche solo per un solo momento.
Ho guardato il lutto silenzioso di coloro che non hanno il permesso di partecipare ai funerali dei loro cari, e l’inquietudine di una madre che non può partecipare alla cerimonia di nozze del proprio figlio, ho sperimentato la malattia, il dolore, la nostalgia. Ogni sentimento, ogni momento che vivi sembra che s’intensifichi e diventi meno accettabile dentro queste mura.
Comunque…
Vivere quest’esperienza è qualcosa che non augureresti a nessuno. La combinazione di dolore e passione unificate in un’anima che langue crea un elisir che non solo consuma l’anima ma in qualche modo la pulisce e la purifica.
Ecco come si compiono 30 anni in carcere…